venerdì 14 novembre 2008

Pensavo fosse Stato di diritto ed invece era cesarismo

In questi giorni ho provato un senso di profondo disorientamento. Alcuni avvenimenti politici, di cronaca, notizie in genere, hanno rischiato di mandarmi seriamente in confusione. Ho temuto che quel poco che avevo imparato dalla vita e da qualche lettura, non fosse ad un tratto più valido.
Tra le altre cose, sapevo ad esempio, che lo stato di diritto ponesse le sue basi su un agire (dello Stato) sempre conforme alle leggi. In primo luogo su un agire sottoposto ai vincoli costituzionali.
Supponevo, forse ingenuamente, che quello italiano fosse uno stato di diritto. Mi aspettavo quindi che lo Stato italiano, si dovesse porre a salvaguardia del diritto e delle libertà dei cittadini che abitano la Repubblica. Poi, appunto, quei fatti politici e di cronaca.

Ho scoperto, quindi, che lo Stato italiano, con la sua forma approssimata di separazione dei poteri, tutela il "diritto" delle forze dell'ordine alla "libertà" di pestaggio e di tortura. Questo diritto è tanto tutelato dallo Stato italiano, che non solo assolve chi è a capo dei pestatori e dei torturatori, ma addirittura li promuove. Ho scoperto questa cosa, grazie a dei giudici che hanno preferito non giudicare. Quei giudici si sono sottratti dal giudicare un potere, che a Genova, nel 2001, in occasione delle manifestazioni contro il G8, ha deciso di mostrare il suo autoritarismo sospendendo i diritti costituzionali più elementari. Fino ad autorizzare se stesso all'uccisione sommaria in una pubblica piazza.
Ed ho scoperto che lo Stato italiano tutela il "diritto" di un governo a mortificare le libertà dei suoi cittadini, esautorando propri rappresentanti che credono ancora nella validità dei dettati costituzionali. Ad esempio, rimuovendo dalle proprie funzioni il prefetto di Roma, Carlo Mosca in carica soltanto da poco più di anno. Ma quel prefetto, forse ingenuo come me, aveva osato rifiutarsi dall'eseguire l'ordine superiore di prelevare le impronte digitali ai bambini di etnia rom. Constatando (l'ingenuo prefetto) che quell'ordine andava contro alcuni principi fondamentali della Costituzione.

Insomma, ho dovuto scoprire che lo Stato decide di arrogarsi in maniera violenta il diritto a porsi al di sopra delle sue leggi e della sua Costituzione. Mentre ai cittadini rimane il dovere di adeguarsi alla volontà dell'autorità, che si fonda sull'arroganza di potere arbitrario.
Ed ho scoperto quindi che lo Stato ci vuole non cittadini ma sudditi, pacati, consenzienti e timorosi del suo cesarismo. Ma io, magari ingenuamente, continuerò a voler essere un cittadino. Che vuole resistere.

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giovedì 13 novembre 2008

Le comunità gagè rubano i bambini

La notizia non ha avuto l'eco che meriterebbe, ma era prevedibile. Si rischierebbe un contraccolpo alla sub-cultura italica, dalle conseguenze imprevedibili. Così abituata alla paura, che abbandonarla rischierebbe di creare un vuoto a quella sottocultura, che comporterebbe il problema di dover essere in qualche modo colmato.
La notizia è questa: le comunità gagè rubano i bambini. Nessuno lo diceva prima, ora lo rileva un'indagine commissionata dalla Fondazione Migrantes al dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona. I risultati dello studio, che ha preso in riferimento il periodo che va dal 1986 al 2007, ha preso in considerazione l'archivio Ansa ed i fascicoli di tribunale. In quel periodo ci sono state 11 sparizioni sicure di bambini, tutte riconducibili appunto alle etnie gagè. Ma chi sono i gagè?

Di questa comunità fanno parte tutte quelle persone che non appartengono alle popolazioni romanì. Cioè tutti quelli che non sono rom, sinti, kalè, romnichels, ecc. Insomma, i gagè (nel linguaggio romanì) sono i "non zingari". Mentre gli "zingari" non rubano i bambini.
Gli "zingari" non rubano i bambini perchè non è nella loro tradizione. Non è concepito nella cultura romanì il rapimento di bambini. Ma nemmeno sarebbe sensato rapire bambini, dato che gli "zingari" hanno già tanti figli. Nonostante tutto, nell'irrazionale immaginario collettivo, questa paura è tanto forte che se una persona di etnia rom, o sinti, o altro si avvicina ad un bambino, si ha subito ed istintivamente il timore di non rivedere mai più il proprio figlio.
Ma si riuscirà ad abbandonare quel pregiudizio para-religioso che tanto lo fa assomigliare ad un dogma? Si riuscirà a scansare quelle affermazioni insensate e si potrà cominciare a ragionare, a verificare ed a cercare di capire? Non ne sono sicuro.

C'è da aspettarsi che nemmeno il rapporto della Fondazione Migrantes, riuscirà a scalfire la coltre di pregiudizio che avvolge gli "zingari". D'altronde l'informazione è costruita in modo da mantenere un rapporto superstizioso con altre comunità. Nutre i timori e le suggestioni con capri espiatori, buoni a nascondere i reali problemi sociali, dei quali le comunità additate come carnefici sono invece doppiamente vittime.

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mercoledì 12 novembre 2008

Sul caso di Eluana io, ateo, mi vesto da cattolico e mi domando...

Nel dicembre del 1999, la Corte d'Appello di Milano rifiutò di accogliere la richiesta di un padre sofferente nel vedere logorarsi il corpo senza coscienza della propria figlia. Quel padre era Beppino Englaro e quella ragazza, ormai donna, era sua figlia Eluana.
Da quella prima sentenza, sono passati nove anni e sono state pronunciate nove sentenze. Ed oggi, probabilmente si giungerà all'ultimo atto di questa triste e tragiga vicenda. Speriamo.
In questi nove anni Beppino ed Eluana Englaro hanno subito una violenza inaudita. La dignità di Eluana è stata giudicata in vario modo. Ognuno ha attribuito alla parola dignità il proprio, personale significato. Ed ognuno ha dato alla vita un momento di inizio ed uno di fine. E' chiaro che ogni posizione è legittima, perchè si tratta di una questione tanto sensibile, che ogni posizione risponde per forza alla propria coscienza. Comunque essa si sia formata. Ma, appunto, non può che essere personale.

Ed invece, mentre la Corte di Cassazione a sezioni riunite sta per esprimersi sul caso Englaro, la Chiesa impone di nuovo i suoi dogmi. Nel proclamarsi custode assoluto di una verità universale, la Chiesa cerca di imporre la propria dottrina sul vivere e sul morire. La manipolazione delle coscienza attraverso il controllo dei corpi. E nell'autocelebrazione di se stessa, la Chiesa dimentica l'umanità e si riduce a un rituale che si accanisce contro le coscienze. E così a turno i gerarchi cattolici si scagliano con ferocia contro le azioni, le sensibilità ed anche i sentimenti delle persone. L'ultima uscita in questo senso è del cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la Salute, che ha avuto la brutalità di affermare che sospendere l’idratazione e l’alimentazione in un paziente in stato vegetativo è "una mostruosità disumana e un assassinio". La brutalità e l'oscenità di una tale affermazione, è ancora più forte nel momento in cui è rivolta contro un uomo che chiede che si cessi di accanirsi contro il corpo della figlia, che da anni si consuma senza di lei.

Mi rendo conto che il mio pensiero è il mio punto di vista. Il mio e basta, da altri condiviso e da altri no. E' il mio punto di vista ateo e laico. E' la mia coscienza a parlare, che da tempo ormai ha smesso i panni del cattolico, che gli erano stati imposti dalla cultura diffusa e dominante. In quei panni mi era stato spiegato che la vita appartiene a Dio. Un Dio buono, generoso e misericordioso. E mi era stato spiegato che quando la vita terrena cessa di essere vissuta, ne comincia un'altra da qualche altra parte e che è Dio a scegliere ed a chiamare a sè le anime. Anche se a distanza di tanto tempo quei panni sono un po' logori e mi stanno un po' stretti, voglio tentare di indossarli per un momento e pormi questa domanda: perchè continuare ad accanirsi contro l'anima di Eluana, che vorrebbe lasciare il suo corpo per rispondere alla chiamata a sè di Dio e che senza la scienza e la tecnologia contemporanea, l'avrebbe già fatto molti anni fa? Perchè continuare con questo cattivo, egoista e brutale accanimento, che così evidentemente si oppone alle virtù divine?

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venerdì 7 novembre 2008

Obama abbronzato? No, è proprio negro! Parola di Forattini

Nel pomeriggio di ieri, in tutto il mondo, attraverso internet, TG o quotidiani, si diffondeva la notizia dell'infelice battuta di Berlusconi, che aveva descritto Obama come un «bello, giovane e abbronzato». Non so quanto di razzista ci sia effettivamente in quella frase. Onestamente, mi pare più uno dei suoi soliti, imbarazzanti, inutili, sproloqui diplomatici. Che si trovi ad un vertice italo-russo insieme al premier Medvedev, oppure con una ubriaca compagnia in un'osteria, per il presidente del consiglio italiano pare fare lo stesso.
Il problema semmai è che non fa lo stesso per l'immagine dell'Italia all'estero. Fuori dai confini italici, quella che una volta era la terra di poeti, santi e navigatori, appare oggi come la patria di giullari e di pagliacciate politiche.

Ma se eravate rimasti sbalorditi della battuta di Berlusconi su Obama ... beh, dovete tenere da parte un po' del stupore per Giorgio Forattini. Il vignettista rimette le cose in chiaro: Barack Obama non è abbronzato. Il neoeletto presidente USA è proprio negro. Anzi è figlio di un maggiordomo negro. E lo fa con la vignetta qui sotto.

E' conosciuta a tutti la valenza dispregiativa della parola negro, quindi immagino anche a Forattini. Se a quella parola si aggiunge la qualifica (in questo caso dequalifica) di maggiordomo, si manifesta un profondo disprezzo per le origini di Barack Obama.
Quella vignetta ricorda tanto le vignette razziste che erano diffuse, soprattutto in USA, fino ai primi decenni del '900. Dove i neri (anzi, i negri) erano raffigurati con sembianze vicine alle bestie. Oppure impegnati in attività squallide o dequalificanti e servili. Come appunto quella del maggiordomo-servitore-schiavo. Perchè solo attività servili svolte in stato di completa sottomissione all'uomo bianco, era possibile agli afroamericani.

Forse Forattini rimpiange quel periodo. E' forse un nostalgico dello schiavismo. Lui, schiavo della cieca ignoranza e rappresentazione umana di un servilismo che non dovrebbe appartenere alla satira.

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giovedì 6 novembre 2008

Il ministero dell'interno costringe Medici Senza Frontiere a lasciare Lampedusa

Avete presente quei luoghi del Pianeta, dove alle organizzazioni umanitarie è impedito di fatto di lavorare? Sapete di quei territori, dove quelle organizzazioni tentano di garantire un minimo di dignità umana a poveri disperati, ma i governi mettono loro il bastone tra le ruote? Immaginate quei luoghi dove un governo dice di non avere bisogno di certe organizzazioni, fatte di persone che gratuitamente prestano un indispensabile servizio? Non c'è bisogno che vi sforziate con la memoria o l'immaginazione. Uno di quei posti è qui. In Italia. Nel nostro meridione. Uno di quei posti è Lampedusa.
Il Ministero dell'Interno, infatti, si è rifiutato di firmare un nuovo protocollo d'intesa con Medici Senza Frontiere e di rilasciare, alla stessa organizzazione umanitaria, le autorizzazioni necessarie ad operare a Lampedusa.

Per quanto il governo si sforzi di mostrarsi cattivo e per quanti accordi faccia con la Libia, gli sbarchi di migranti sulle nostre coste continuano. Evidentemente la fame e le guerre, rimangono buoni motivi per fuggire da un territorio. Sembra ovvio, ma provatelo a spiegare a Maroni.
Nel corso dei primi nove mesi del 2008, gli sbarchi sono stati 23mila. Solo a Lampedusa, Linosa e Lampione ce ne sono stati 325. E qui Medici Senza Frontiere, tra gennaio e ottobre di quest'anno, ha prestato le proprie cure a quasi 1500 migranti. Dal 2005 ad oggi, sono stati visitati a Lampedusa oltre 4500 persone che sbarcavano dopo lunghe traversate in mare, in condizioni al limite della sopravvivenza. In un territorio che non sarebbe in grado, con le sole strutture sanitarie regionali e per il numero di prestazioni da eseguire, di prestare un servizio adeguato di assistenza medica.
La considerazione che questo governo xenofobo ha della tutela della dignità umana, è tanto bassa che con questa decisione negherà di fatto cure adeguate a centinaia di persone in fuga da guerre e miseria, che sbarcano in Italia dopo viaggi in condizioni disumane. Tanto più che c'è da aspettarsi che molti migranti rifiuteranno le cure, se dovesse passare l'emendamento leghista al DdL 733 (pensato apposta per i migranti), che nega nei fatti l'universalità del diritto alla salute.

Ma di questo il ministero dell'Interno se ne sbatte. Come se ne sbattuto lo stesso ministero nel 2004. Quando il predecessore di Maroni, Scajola negò anche allora a MSF di proseguire con la propria attività umanitaria, dopo che la stessa organizzazione aveva pubblicato un rapporto sulle condizioni sanitarie dei migranti detenuti nei CPT. Era un rapporto scomodo.
Come è scomoda, per i piani del governo, l'opera di MSF, visto che tenta di riportare un minimo di umanità, laddove la xenofobia governativa si accanisce sulla dignità umana delle persone più deboli.

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mercoledì 5 novembre 2008

Barack Obama: il rischio di un sogno...

Non sono certo state elezioni al cardiopalma, quelle americane. Barack Hussein Obama II era dato per favorito da diversi giorni e con grandi margini di vantaggio sul suo rivale McCain. Ma la doverosa incertezza ha favorito una certa attrazione per l'evento e forse anche per il candidato democratico. Ed alla fine, come era abbastanza prevedibile in questi ultimi giorni, Barack Obama ha vinto le elezioni, diventando il 44esimo presidente degli USA.
Il fascino di Obama è stato senz'altro alimentato, anche dalla grave crisi finanziaria che ha colpito innanzitutto gli USA. La gente aveva bisogno di vedere un cambiamento radicale e lo ha identificato con Obama. Forse accostando eccessivamente l'uomo con la proposta. Mi spiego.
Certamente Obama rappresenta una svolta dal punto di vista sociale. La sua elezione è vista come un definitivo riscatto degli afroamericani (e non solo) dalla subordinazione sociale (anche se la campagna elettorale di entrambi i candidati, è stata avara nel trattare temi come quello dell'immigrazione). Ma questo rischia di riporre nel neopresidente una fiducia smisurata, rispetto alle proposte effettivamente messe in campo e, soprattutto, rispetto alle reali possibilità di mettere in atto dei radicali cambiamenti.
E' ovvio con la sconfitta di McCain è una piccola vittoria per miliardi di persone in tutto il mondo, incarnando, il candidato repubblicano, un'idea di governo in linea con quella di Bush. Ogni cosa è meglio di una continuazione delle politiche unilaterali della passata amministrazione USA.

Ma non per questo si può fare a meno di notare che Obama (come McCain) ha tra i suoi sostenitori economici, gruppi finanziari coinvolti pesantemente nella crisi. Ci vuole quindi uno sforzo di ottimismo, per pensare che Obama non guarderà agli interessi particolari di quegli "investitori". E d'altronde è stato lo stesso Obama a dire di essere pro-crescita e per il libero mercato. Addirittura di amare il mercato, da bravo professore dell'università di Chicago, sede del pensiero di Milton Friedman.
Così come non sarà facile immaginare un ritiro completo delle truppe americane dall'Iraq o dall'Afghanistan. Non sarà facile immaginare una retrocessione dall'assurda "guerra al terrore", nei confronti della quale Obama, durante la campagna elettorale, è stato piuttosto vago. Salvo affermare di essere favorevole ad una riduzione del contingente militare in Iraq, per rafforzare le operazioni in Afghanistan. E poi dovrà ad ogni modo anche lui rispondere a particolari e forti interessi.
Nè si può dire che il neopresidente USA abbia assunto una posizione su Israele, troppo distante da quelle delle passate amministrazioni americane. Spingendosi anche ad affermare che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale dello Stato ebraico, la cui sicurezza rimane il principale obiettivo americano in Medio Oriente.
E comunque Barack Obama risulta meno liberal di quanto appaia, su temi come la pena di morte che dichiara di appoggiare; oppure sull'uso delle armi il cui diritto non si sogna di toccare; nè assume posizioni troppo progressiste sui diritti civili per gli omosessuali.

Nonostante tutto, quella di Barack Obama rimane una vittoria per il solo fatto di aver interrotto la strategia di aggressione politica e militare unilaterale degli USA, che ha caratterizzato l'amministrazione Bush e che vedeva in McCain il suo naturale prosecutore. La vittoria di Obama è vista come il sogno di un possibile cambiamento, al quale sarà bene comunque guardare criticamente. Il rischio è che, al risveglio dal sogno, si dovrà notare che "tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato".

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martedì 4 novembre 2008

E' festa dell'unità d'Italia anche a Secondigliano?

Festeggiamenti in grande stile, quest'anno si svolgono per il 4 novembre. Sempre più retoricamente celebrato e spudoratamente festeggiato. Si festeggia una tragica, assurda guerra di aggressione italiana. E si festeggia una virile unità d'Italia.
Una unità d'Italia che l'arte oratoria politichese, dice di essere dalle Alpi fino in Sicilia. Ma che invece sembra interrompersi a tratti. Ed una di quelle interruzioni, sembra esserci a Secondigliano, quartiere periferico di Napoli. E mi chiedo se anche a Secondigliano si festeggi quell'unità d'Italia, che si dice completata con la proclamazione della fine della Prima Guerra Mondiale e con l'annessione, entro i patri confini, di Trento e Trieste.

Solo due giorni fa, a Secondigliano sono stati gambizzati 5 ragazzini tra i dodici ed i sedici anni. A quell'età si dicono bambini o poco più, ovunque meno che in quel quartiere ed in qualche altro posto della penisola, dove l'unità d'Italia sembra interrompersi.
A Secondigliano, essere gambizzati è "roba che succede se si sta in miezz'a via". In miezz'a quella via dove lo Stato non è ancora presente. In miezz'a na via dove si diventa grandi in fretta. Anzi, dove l'infanzia e l'adolescenza sono stadi della vita che non vengono vissuti. E si diventa grandi e degni di rispetto, anche con dei proiettili piantati nelle gambe, che lasciano cicatrici da ostentare come trofei guadagnati in una gara a sapere rimanere in vita.

Nelle strade che attraversano Secondigliano, lo Stato ha posto dei confini. Secondigliano è stato lasciato diventare un ghetto naturale, dove si ergono dei muri invisibili che si oltrepassano a proprio rischio e pericolo. Secondigliano è oggi uno sterminato quartiere di 55.000 abitanti, lasciato a sé stesso e di cui ci si ricorda solo quando un fatto di cronaca appare più efferato di altri.
Un quartiere-nazione, dove a succedersi al "governo" sono clan di camorra "eletti" a colpi di pistola. Un piccolo Stato dove non si sceglie di rispondere alla legge della criminalità, lo si fa e basta. Perchè in quelle strade l'unico codice realmente in vigore è quello della criminalità organizzata.

Lo Stato, in posti come Secondigliano non c'è. Quando Capi di Stato, Presidenti del Consiglio, della Camera o del Senato, Ministri e rappresentanti dello Stato di ogni sorta vorranno di nuovo festeggiare l'unità d'Italia, farebbero bene a smettere gli abiti patriottardi e, vestendosi di umiltà, accorgersi che ci sono pezzi d'Italia che sono sempre meno parte di una nazione.

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lunedì 3 novembre 2008

Sarà una brutta giornata di coma culturale domani

Il 4 novembre 1918, il Generale Armando Diaz emette il Bollettino della vittoria, con il quale si annuncia la fine della Prima Guerra Mondiale. Venne in quel modo proclamata la fine di una guerra che per l'Italia fu di aggressione e che provocò quasi 9 milioni di morti. Centinaia di migliaia furono i morti italiani, chiamati a combattere una guerra di cui non conoscevano nemmeno le cause e che solo una retorica patriottarda può definire eroi.
Solo con una espressione di virilità militaresca, si può definire la Grande Guerra come parte di un "ciclo delle campagne nazionali per l'Unità d'Italia", riferendosi all'annessione forzata di di Trento e Trieste. Un territorio che si sarebbe potuto ottenere in cambio della nautralità italiana alla guerra.
Solo la retorica simil-fascista può orgogliosamente festaggiare la vittoria in un'inutile strage di milioni di persone, condotta con i mezzi di combattimento più avanzati per l'epoca, fino anche con i gas per provocare uccisioni di massa. Quella stessa retorica, permette di inviare in centinaia di scuole italiane, emissari del governo a promuovere festeggiamenti per una carneficina mondiale, che la oratoria patriottarda definisce vittoria.

Assisteremo di nuovo alle parate militari, con i fori imperiali invasi da carri armati, blindati, armi più o meno distruttive, migliaia di divise inamidate e saluti militari. Lo Stato spenderà milioni di euro per mettere in mostra i muscoli e farsi vedere bello e forte. Orgoglioso di affermarsi in teatri di guerra, oggi dall'Afghanistan all'Iraq e ovunque ci sia da sparare e guadagnare sparando, 90 anni fa nella Prima Guerra Mondiale. E questo è l'orgoglio che verrà portato nelle scuole.
In quei luoghi dove piccoli cittadini cominciano a formarsi, per un giorno verrà prepotentemente affermata la supremazia della forza delle armi e degli eserciti, sul valore della pace. Domani nelle aule frequentate da bambini e bambine, verrà imposto il valore della patria e della nazionalità, sopra quello di apertura culturale e collaborazione sociale.

Sarà una brutta giornata di coma culturale domani nelle scuole italiane. Dove verrà rinnovata la retorica nazionalista che non spiegherà come la Prima Guerra Mondiale, aprì la strada al fascismo ed al nazismo. Dittature che prepararono alla follia guerrafondaia della Seconda Guerra Mondiale ed al suo delirio omicida. Non si racconterà domani che le inenarrabili sofferenze di quelle guerre, furono tanto vomitevoli da farci ripudiare qualunque guerra e sancire tale ripudio nella Costituzione italiana.
La giornata di domani, avrebbe potuto assumere il significato di affermare il rifiuto di ogni guerra. Ed invece saranno rispolverati concetti nazionalismo e militarismo ed insegnati come virtù che assumono, nella situazione odierna, il significato di esaltazione della chiusura culturale e dell'uso della forza come mezzo per la loro affermazione.
Mentre la scuola subisce tagli economici e riforme che allontanano dalle cattedre migliaia di insegnanti, in una scuola che va assumendo sempre più dei caratteri a-democratici, si sostituiscono gli insegnamenti di professori precari con la presenza e la retorica dei militari. Di questi tempi appare un pericoloso avvertimento ed un cattivo presagio.

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