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venerdì 18 settembre 2009

Avrei pianto un soldato morto in una "guerra di Piero"

Eroismo, patriottismo, terrorismo, libertà, democrazia ... sono parole davvero troppo grosse e perciò usate a sproposito, per parlare della morte di sei militari italiani in Afghanistan. La loro morte non è servita a difendere una patria che non è in pericolo di invasione straniera; il terrorismo non è debellato ed è anzi alimentato dall'invasione militare delle forze Isaf; non sono più libero di prima e molti, in altre parti del mondo lo sono meno di prima; l'Italia è meno democratica rispetto all'inizio delle "guerre umanitarie", né è più democratico l'Afghanistan, né l'Iraq, né gli USA. E devo sentir parlare di eroi.

Non voglio fare della facile retorica accostando le morti sul lavoro e la morte dei soldati. Ma non mi si venga nemmeno a raccontare la storia dei soldati che sarebbero morti sul lavoro. Perchè allora dovrei accettare l'idea dell'uccisione come un'arte ed il soldato come mastro. E quindi dovrei considerare il killer un lavoratore ed il sangue delle persone uccise il prodotto di quel lavoro. Perchè, come faceva osservare San Cipriano, non si può accettare "che l'omicidio è crimine quando sono i singoli a commetterlo, ma diventa virtù quando è compiuto in nome dello stato". Perchè dovrei accettare che l'impunità, addirittura quella morale, debba tanto più garantita quanto più grande e feroce è il massacro, quanto più forte è la mano omicida e quanto più debole chi subisce la violenza? No, non l'accetto. Non sono tanto perverso.

Non ho la mente ancora tanto offuscata da non accorgermi che un soldato in missione ci va da volontario, dietro compensi che un operaio impiega mesi ad accumulare. Ma lui, mi si dice, è ricompensato del rischio che corre per la sua vita. Certo, ma questo significa che quel soldato, è consapevole ed accetta il rischio di poter saltare in aria o di poter incrociare uno che il fucile lo usa prima di lui. Il soldato in missione, sceglie di mettere in pericolo la propria vita, per andare a migliaia di chilometri da casa ad uccidere un suo simile, che non conosce, che non ha mai visto, con il quale non ha mai parlato e dal quale non ha subito alcun torto. Da un'altra parte del mondo ci sono persone non hanno mai fatto nemmeno un buffetto, né a quel soldato, né a me e né ad altri della nostra Italia guerrafondaia. Eppure quelle persone saranno uccise da soldati che hanno scelto di uccidere per un compenso offerto dalla propria patria, e saranno uccisi perchè il caso ha voluto che nascessero in una parte del mondo, dove una vita umana ha il prezzo dello stipendio di un soldato.

E lo chiamate patriottismo questo? E lo chiamate morire per la patria questo? Oppure devo credere alla favola della morte per una causa umanitaria? Di una causa che ha dovuto inventare una minaccia? Devo rassegnarmi alla possibilità di una guerra giusta? No, non lo faccio. Non mi rassegno a questo e non piango ipocritamente la morte di sei soldati in guerra, dopo aver manifestato per la pace, dopo essere sceso in piazza contro la guerra. Non sono di quelli che sventola la bandiera arcobaleno e poi ci si asciuga le lacrime considerando eroi dei soldati in guerra.

Ma non sono tanto barbaro da non provare un enorme dispiacere per la morte di esseri umani, italiani ed afghani (questi ultimi, civili). Non sono così meschino da non soffrire, per il dolore di quanti piangono i loro cari morti in guerra. Ho un rispetto enorme per la vita umana. Forse proprio per questo, però, non riesco a provare quel dolore che in tanti esprimono, per la morte di persone che hanno scelto la possibilità di togliere la vita ad altri esseri umani, in difesa di logiche guerrafondaie. Avrei pianto un soldato morto in una "guerra di Piero". Un soldato che, andando "triste come chi deve", ha il coraggio di rischiare la propria vita pur di non "vedere gli occhi di un uomo che muore".


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giovedì 28 maggio 2009

35 anni fa: la strage di Piazza della Loggia. La ferita alla democrazia è ancora aperta.

La bomba esplose due anni prima della mia nascita. Eppure il pensiero di quanto avvenne il 28 maggio di 35 anni fa a Brescia, mi suscita sentimenti di rabbia ed indignazione.
Quel giorno del 1974, in Piazza della Loggia a Brescia, una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo di matrice neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato antifascista. L’attentato provocò la morte di otto persone: Giulietta Banzi Batoli, Clementina Calzari Trebeschi, Livia Bottardi Dilani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Vittorio Zambarda. Altre cento persone rimasero ferite. Nessun colpevole, nè tra gli esecutori, nè tra i mandanti è stato individuato nelle aule dei tribunali. Da qui la rabbia.

E poi l'indignazione, per una strage che ha visto la probabile complicità di apparati dello Stato. Un'ipotesi, questa, che ha trovato spazio nei dibattimenti processuali ed avvalorata da cirocstanze a dir poco inquietanti, ed in primo luogo dal fatto che a meno di due ore dalla strage, ad una squadra di pompieri fu impartito l'ordine di ripulire con le autopompe il luogo dell'esplosione da indizi, reperti e tracce di esplosivo.

Ma anche se le colpe non sono state ancora individuate nelle aule di tribunale, la ricerca della verità condotta soprattutto con la tenacia delle associazioni dei famigliari delle vittime, ha dimostrato lo strappo democratico di quegli anni. Una ferita inferta alla democrazia che ancora non si è rimarginata, visto che esponenti della destra di quegli anni, che ebbe responsabilità dirette nella violenza antidemocratica di quel periodo, oggi occupano importanti cariche istituzionali. Dato che gruppi di neofascisti, eredi diretti della destra coivolta nella strategia della tensione degli anni settanta, ancora girano per le strade ed ancora compiono le loro vigliacche aggressioni e con questi la destra istituzionale mantiene relazioni e si unisce per le elezioni.

Soprattutto la ferita alla democrazia è ancora aperta e si allarga ad ogni dichiarazione antidemocratica del presidente del consiglio dei ministri, contro la Costituzione, contro la magistratura che vorrebbe sottomettere al suo potere, contro il Parlamento a cui progrssivamente va togliendo prerogative e dignità. E nuove ferite vengono inferte alla democrazia, quando si tenta di ridurre i diritti dei lavoratori, quando si attacca il diritto allo studio, quando non si garantiscono i diritti civili ed individuali costituzionalmente garantiti.
La speranza è che la ferita possa essere curata. Ma c'è bisogno di una risposta unitaria e di massa. Da subito.

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