venerdì 29 maggio 2009

Brunetta, la mafia e Gambadilegno...

Non so da quali fumetti tragga ispirazione il ministro Brunetta, per il suo programma politico. Lo immagino però seduto a letto, con una torcia elettrica accesa sotto le coperte, leggere storie fantastiche da riproporre il giorno dopo in conferenze stampe ed interviste, trasformate in obiettivi di governo. Il nano da giardino che sogna di diventare un supereroe, ha un sacco di nemici da combattere: prima fannulloni e magistrati che sconfiggerà con il prezioso aiuto dei tornelli; ora, in un'intervista rilasciata a Klaus Davi si scaglia contro pance tonde, jeans e magliette.

Nella stessa intervista, il ministro Brunetta parla anche di criminalità. E qui le cose dovrebbero farsi serie, ma Brunetta, che a quanto pare non riesce a distinguere la fantasia dalla realtà, confonde i mafiosi con Gambadilegno. Perciò arriva a dire che l'antimafia dovrebbe essere sciolta perché, dice il ministro senza temere vergogna «la mafia è una forma di criminalità e dovrebbe essere perseguita come tutte le altre». Affrontando senza pudore il senso del ridicolo, il satiro di governo riesce a mettere l'uno fianco all'altro Provenzano e Macchianera ed i Corleonesi con la Banda Bassotti.
Dice Brunetta: «Se della mafia facciamo un simbolo ideologico, con la sua cultura, la sua storia e così via, rischiamo di farne un’ideologia e come tale, alla fine, produce professionisti di quella ideologia proprio nei termini in cui ne parlava Sciascia, professionisti dell’antimafia». Brunetta si riferisce ad un articolo dello scrittore siciliano, pubblicato sul Corriere della Sera nel 1987. Ma che non fosse quello dichiarato dal ministro della pubblica amministrazione il senso di quell'articolo, può accorgersene chiunque vada oltre le letture dei fumetti di Walt Disney.

Sciscia non ha mai detto nè scritto di voler rimuovere l'antimafia, ma ne contestava il suo uso distorto come strumento per l'esercizio di un potere assoluto. Così si comportò il fascismo, per il quale, dice Sciascia
«l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile».
Allo stesso modo l'antimafia può essere utilizzata anche in un sistema democratico, ad esempio come forma di propaganda da parte di un partito per attirare consensi e garantirsi l'impunità politica. Sciascia fa questo esempio nel suo articolo:
«Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».
Più chiaro di così!

Sciascia poneva il problema reale di come il potere si pone di fronte alla mafia. Ed una tale questione, non avrebbe senso se alla base del ragionamento non si considerasse la mafia in tutta la sua forza criminale. Una forza tanto ampia che alcuni con essa cercano la collusione, altri invitano a conviverci. Brunetta fa di più: rimuove il problema mettendo sullo stesso piano reati di mafia e reati minori; l'estorsione mafiosa ed il furto con destrezza.
Rimuove il problema mafia, il ministro Brunetta quando banalizza la questione. Ma sminuire quel problema è come dire che la mafia non esiste. Ed invece la mafia esiste ed è una montagna di merda.

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giovedì 28 maggio 2009

35 anni fa: la strage di Piazza della Loggia. La ferita alla democrazia è ancora aperta.

La bomba esplose due anni prima della mia nascita. Eppure il pensiero di quanto avvenne il 28 maggio di 35 anni fa a Brescia, mi suscita sentimenti di rabbia ed indignazione.
Quel giorno del 1974, in Piazza della Loggia a Brescia, una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo di matrice neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato antifascista. L’attentato provocò la morte di otto persone: Giulietta Banzi Batoli, Clementina Calzari Trebeschi, Livia Bottardi Dilani, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trebeschi, Vittorio Zambarda. Altre cento persone rimasero ferite. Nessun colpevole, nè tra gli esecutori, nè tra i mandanti è stato individuato nelle aule dei tribunali. Da qui la rabbia.

E poi l'indignazione, per una strage che ha visto la probabile complicità di apparati dello Stato. Un'ipotesi, questa, che ha trovato spazio nei dibattimenti processuali ed avvalorata da cirocstanze a dir poco inquietanti, ed in primo luogo dal fatto che a meno di due ore dalla strage, ad una squadra di pompieri fu impartito l'ordine di ripulire con le autopompe il luogo dell'esplosione da indizi, reperti e tracce di esplosivo.

Ma anche se le colpe non sono state ancora individuate nelle aule di tribunale, la ricerca della verità condotta soprattutto con la tenacia delle associazioni dei famigliari delle vittime, ha dimostrato lo strappo democratico di quegli anni. Una ferita inferta alla democrazia che ancora non si è rimarginata, visto che esponenti della destra di quegli anni, che ebbe responsabilità dirette nella violenza antidemocratica di quel periodo, oggi occupano importanti cariche istituzionali. Dato che gruppi di neofascisti, eredi diretti della destra coivolta nella strategia della tensione degli anni settanta, ancora girano per le strade ed ancora compiono le loro vigliacche aggressioni e con questi la destra istituzionale mantiene relazioni e si unisce per le elezioni.

Soprattutto la ferita alla democrazia è ancora aperta e si allarga ad ogni dichiarazione antidemocratica del presidente del consiglio dei ministri, contro la Costituzione, contro la magistratura che vorrebbe sottomettere al suo potere, contro il Parlamento a cui progrssivamente va togliendo prerogative e dignità. E nuove ferite vengono inferte alla democrazia, quando si tenta di ridurre i diritti dei lavoratori, quando si attacca il diritto allo studio, quando non si garantiscono i diritti civili ed individuali costituzionalmente garantiti.
La speranza è che la ferita possa essere curata. Ma c'è bisogno di una risposta unitaria e di massa. Da subito.

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mercoledì 27 maggio 2009

Il memoricidio israeliano per completare la pulizia etnica del popolo palestinese

Quello che si racconta in Israele è che gli ebrei, occupando la Palestina, sono solo tornati nella loro terra; che la Palestina era una zona praticamente disabitata; che gli ebrei volevano vivere in pace, ma i palestinesi non vollero rispettare il Piano di partizione della Palestina dell'ONU del 1947; che gli stessi palestinesi attaccarono gli ebrei israeliani e che questi dovettero difendersi anche dalle incursioni di altri Paesi arabi. Immagino che questa sia la storia raccontata anche nei libri delle scuole israeliane. Che sia vera o falsa, da quelle parti ha la stessa scarsa importanza di ogni luogo in cui si perpetra una pulizia etnica. Il contenuto della storia in quei casi, ha la stessa importanza che gli dava Goebbels, ministro della propaganda nazista quando bruciava i libri ed affermava che a ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte, quella diventerà una verità.

E così, il 15 maggio 1948 rappresenta per gli ebrei israeliani il giorno della loro "liberazione"; quello stesso giorno è per i palestinesi l'inizio di una catastrofe. Per i Palestinesi, il 15 maggio 1948 è Al Nakba ed è il giorno in cui quel popolo è diventato un popolo di rifugiati. Da quella data, 750.000 Palestinesi sono stati espulsi dalle lo case; oltre 500 villaggi sono stati evacuati. Dopo quel giorno, ai Palestinesi è rimasto il 10% della loro terra, mentre possedevano il 90% della Palestina prima del 1948. Oggi, il sogno di ogni Palestinese è quello di fare ritorno nella propria terra e quel sogno è rinnovato ogni anno attraverso la commemorazione della Nakba.

Mantenere vivo il ricordo di quel giorno, vuol dire mantenere viva la coscienza di ciò che un Palestinese oggi è. Perchè non è pensabile per nessuno avere coscienza di ciò che si è prescindendo dal passato. E' questa la funzione della memoria storica. E per il popolo palestinese quella memoria ricorda sempre che suo diritto è quello di fare ritorno nella propria terra, di vedersi restituita la proprietà ed essere compensato delle perdite e dei danni subiti.

Un popolo senza memoria storica, è un popolo che non ha coscienza di sè. Non è un popolo e non può rivendicare per sè alcun diritto. Un popolo senza memoria non ha futuro ed è destinato a lasciarsi morire, magari soffocato da un potere che per difendere se stesso da una storia che lo condanna, deve uccidere il passato ed imporre con la forza la sua storia, la sua verità ed il suo pensiero. Questo tentò di fare la Germania nel suo delirio nazista e questo Israele sta cercando di fare oggi, varando una legge che proibisca ai Palestinesi di celebrare la Nakba. Dopo aver cacciato i Palestinesi dalle loro terre, dopo averli massacrati, annientati fisicamente, il governo israeliano sta cercando di completare la pulizia etnica del popolo palestinese cancellandone la storia con la forza. Un "memoricidio", come lo definisce lo storico israeliano Ilan Pappè, per completare in maniera efficace la pulizia etnica che il popolo palestinese subisce da oltre 60 anni.

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Appello in difesa della democrazia, in difesa della Costituzione


Aderisco con convinzione a questo appello...
Sono giornate molto pesanti, in cui le parole gravano come macigni, e se l’argomento di queste parole sono la Democrazia, il Diritto, la Giustizia, il rischio è che questi macigni si trasformino in frane, di quelle che travolgono interi paesi cancellandone la storia, cancellandone la civiltà, rinnegandone l’etica.

Mancano due settimane alle elezioni europee, nel nostro Paese questo appuntamento, a causa delle parole-macigno del capo del governo, rischia di assumere caratteristiche che vanno ben al di là del risultato puramente elettorale.

Una cosa soprattutto assume un importante valore politico: la coesione che travalica le sigle, di un fronte di difesa democratico della Costituzione e delle Istituzioni .

Attualmente sono cinque i soggetti politici che partecipando alla competizione europea possono rappresentare questo fronte: i due cartelli elettorali di sinistra, il PD, IDV-Di Pietro e UDC.

Dei cinque partiti o movimenti il PD è l’unico che, ad oggi, sostiene la campagna dei referendum di riforma della legge elettorale. Nell’eventualità che il referendum passi ci ritroveremmo con un sistema che prevederà premio di maggioranza al partito di maggioranza relativa (non alla coalizione) e innalzamento della soglia minima di sbarramento. Risultano evidenti due cose: che una minoranza del paese, ma in possesso di una maggioranza relativa, avrebbe uno strapotere e una consistente porzione di elettori non avrebbero rappresentanza parlamentare.

In questi giorni è davanti gli occhi di tutti l’inaudito attacco alle istituzioni da parte del capo del Governo. Credo che proseguire sulla strada del referendum sarebbe come iniettare cellule malate in un corpo che già sano non è.

Il PD deve uscire dall’equivoco e riconoscere che il tema del referendum è di fatto superato da una evidente emergenza democratica e che sarebbe un suicidio della democrazia anche solo ipotizzare leggi che diano maggiori poteri agli organismi di governo.

La democrazia è un sistema di governo con evidenti imperfezioni, ma anche con importanti anticorpi che normalmente impediscono la degenerazione. Il nostro compito è quello di far sì che non calino le difese immunitarie insite nella nostra Costituzione.

Una rinuncia da parte del PD ad appoggiare e sostenere il referendum potrebbe inoltre raccogliere il consenso di molti compagni che non riconoscendosi nell’area dei due cartelli elettorali di sinistra, si troverebbero nell’imbarazzo di un voto all’Italia dei Valori, che pur essendo un partito di sicura opposizione a Berlusconi, non rappresenta la cultura di sinistra, o di una astensione, in quanto non si sentirebbero sufficientemente tutelati proprio in funzione del referendum liberticida.


Blog promotori:

A sinistra

http://ilrusso.blogspot.com/2009/05/appello-in-difesa-della-democrazia-in.html

La Mente persa

L’eco dell’Appennino

Vengo da lontano ma so dove andare

PS. Chi condivide questa richiesta copi e incolli sul proprio blog il post senza aggiungere o togliere nulla possibilmente segnalando l’adesione a uno dei cinque blog promotori o alla seguente mail indemocrazia@yahoo.it

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lunedì 25 maggio 2009

Non si combatte la mafia riducendo gli spazi di democrazia

Per sconfiggere la mafia, c'è bisogno di un esercito ... di insegnanti. Lo diceva Giovanni Falcone, che aveva capito molto prima di altri, che la mafia è un sistema e come tale deve essere combattuta. Giovanni Falcone sapeva e denunciava che innanzitutto si deve lottare contro la mafiosità quotidiana, che si alimenta di disagio sociale che comincia della dequalificazione della scuola pubblica. Perchè la mafia può contare sul consenso solo quando alimentato dall'ignoranza.
Il sapere, la cultura, l'istruzione, sono argini che possono fermare lo straripare del sistema mafioso, che altrimenti rimane libero inondare ogni settore della vita sociale, civile e privata. Perciò, se quegli argini vengono abbattuti, se quella prima e fondamentale barriera al dilagare del sistema mafioso viene eliminata, la mafia non può che esserne contenta. Se pertanto la scuola viene dequalificata, la mafia non può che ringraziare chi quell'operazione di dequalificazione porta avanti.

In questo senso, è innegabile che le politiche in materia di scuola pubblica portate avanti dai vari governi da molti anni a questa parte, non possono essere un argine al sistema mafioso, dal momento in cui: sottraggono risorse finanziarie alla scuola, mentre destinano soldi pubblici alla scuola privata; aumentano il numero di studenti per classe peggiorando inevitabilmente la qualità dell'insegnamento; licenziano migliaia di insegnati; riducono le ore di attività scolastica orientate ad attività sociali, di aggregazione e di crescita. Una condizione di progressivo degrado della scuola pubblica con l'obiettivo dell'annullamento del suo valore sociale. Una condizione che ognuno che possa dirsi sinceramente contro la mafia, ha il dovere di denunciare. Sia esso un singolo cittadino, un'associazione, un partito politico o un sindacato.

Questo i Cobas hanno fatto a Palermo il 23 maggio, durante la commemorazione del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci, davanti all’albero Falcone in via Notarbartolo. Lo hanno fatto sabato scorso come lo fanno da 9 anni, con lo stesso vecchio striscione, ancora drammaticamente attuale anche se logorato dal tempo e che recita: "LA MAFIA RINGRANZIA LO STATO PER LA MORTE DELLA SCUOLA". Quest'anno, però, quello striscione a qualcuno non è piaciuto e quella denuncia, tanto forte quanto reale, non è sembrata opportuna. Così quello striscione è stato fatto ritirare e tre aderenti ai Cobas sono stati costretti a commemorare la strage di Capaci tra le mura della questura di Palermo, con l'accusa di manifestazione non autorizzata, vilipendio allo Stato e resistenza a pubblico ufficiale. Purtroppo, sembra che ad invitare la polizia ad intervenire, sia stata l’associazione della sorella del giudice Falcone, probabilmente ritenendo la manifestazione un fatto privato, ad appannaggio esclusivo degli organizzatori. Se così fosse, ci troveremmo di fronte ad una privatizzazione della memoria collettiva per le vittime di mafia. Le manifestazioni contro il sistema mafioso sarebbero trasformate in occasioni di ritrovo istituzionale, a cui pezzi di società civile sono invitati a partecipare senza esprimersi. Senza possibilità di far sentire il proprio dissenso, senza possibilità, quindi, di esercitare pienamente il proprio diritto di espressione. Ma non si può pensare di combattare la mafia riducendo gli spazi di democrazia. Non si può lottare contro il sistema mafioso, senza combattere per l'affermazione di diritti fondamentali, come quello di una scuola pubblica qualificata che sappia garantire la conoscenza.

Sabato a Palermo, durante la commemorazione del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci, davanti all’albero Falcone in via Notarbartolo, tre lavoratori della scuola aderenti ai Cobas si sono espressi contro la mafia e per l'affermazione di una scuola pubblica degna di questo nome, come argine al sistema mafioso. Ma hanno detto loro che era meglio stare zitti. E lo hanno fatto con un pessimo stile...

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lunedì 18 maggio 2009

Stiamo perdendo!


Stiamo perdendo! Come lavoratori, stiamo subendo una pesante sconfitta. Non è che si potessero nutrire grandi speranze di radicali cambiamenti, prima di sabato scorso, ma ora si rischia di lasciare mano libera ai padroni, mentre tra noi lavoratori ci impegnamo in una guerra fraticida. Con quel sindacato che rappresenta i suoi lavoratori e quell'altro che ne rappresenta altri, e l'uno contro l'altro un giorno sì e l'altro forse no, a seconda del che si tratti di un accordo con Confindustria o un palco del 1° maggio. Con un punto in comune: la pretesa di rappresentare i lavoratori. Una rappresentanza spesso arrogante, che spende parole che non sempre sono quelle dei lavoratori, ai quali la parola non viene mai concessa e che se provano a prenderla, diventano pericolosi brigatisti.

Non ho approvato quanto è successo sabato a Torino sul finire della manifestazione dei lavoratori della Fiat, indetta dai sindati confederali, alla fine della quale alcune decine di aderenti allo Slai-Cobas hanno cercato di prendere parola contro il rifiuto degli organizzatori. Ne contesto l'inopportunità del gesto. Un gesto che è stato un errore e che dal giorno dopo è stato fortemente strumentalizzato, ma contro il quale tutti si sono accaniti senza però quell'onestà intellettuale che richiederebbe di verificare quanto realmente accaduto (qui e qui).

La contestazione dei Cobas era rivolta contro un sindacato che si arroga un diritto di rappresentanza, che negli ultimi quindici anni è costato ai lavoratori una diminuzione del salario reale. Che è costato ai lavoratori di Pomigliano d'Arco, il confino nello stabilimento di Nola. Che sta costando la riduzione dei tempi di vita in nome della produttività; la precarietà del lavoro; i morti di lavoro. Questo ed altro finora è costato ai lavoratori l'attività sindacale concertativa, condotta secondo un presunto principio d'autorità. Questa e non solo è ad oggi la rappresentazione reale di una arrogante rappresentanza formale. Mentre gli operai dello Slai Cobas volevano parlare ad altri operai.

Ed invece c'è stata di nuovo una chiusura, di nuovo uno scontro, di nuovo divisioni tra lavoratori e di nuovo unanime condanne contro inventati "violenti" e "potenziali brigatisti". Di nuovo si è data occasione per strumentalizzare le richieste dei lavoratori, le ragioni di una lotta che dovrebbe essere unitaria e generalizzata. Così tutto rischia di tornare alla normalità: con i padroni che lasciano cadere qualche briciola dei loro lauti pasti, per osservare divertiti come si sbranano tra loro i lavoratori nel tentativo di raccoglierle.

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